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La reciprocità in videoconferenza -prima parte

L’idea del caffè pedagogico in videoconferenza (VDC) nasce dall’incontro tecno-comunicativo della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università Ca’ Foscari di Venezia, coordinato dalla prof.ssa Ivana Padoan e il laboratorio Laser coordinato dal prof. Roberto Cipriani. Oltre all’odore del thè con i biscottini alle mandorle, fili di rame intrecciati con doppine telefoniche, succo d’ananas, televisori, cultura accademica e microfoni, insomma, oltre al caos e all’indeterminatezza di vecchi e nuovi saperi, si è cercato di focalizzare l’attenzione su un punto fermo: la reciprocità del dialogo.

Nel terzo millennio il caffé si prende dentro le officine dei metalmeccanici, al Senato e alla Camera, negli uffici in Sud America e a Pechino, in un salotto borghese, vicino ai gradini delle cattedrali, dentro e fuori dell’università, insomma in tutti i luoghi che ora non sono più solo luoghi quanto piuttosto figurate espressioni d’incontro. Però, la molteplicità crea confusione, nevrosi, sovrapposizioni e schizofreniche digressioni intellettuali, dove la complessità, si perde nel tumultuoso spazio del disordine. L’obiettivo del caffè socio-pedagogico si è mosso con un desidero preciso: abituare persone e cose, mezzi e tecnologie ad interagire tra loro, sincronizzando così azioni e pensieri, teorie e soprattutto dialoghi in un loro reciproco scambio istintivo di socievolezza. Come afferma la prof.ssa Ivana Padoan, il caffè diventa una forma di apertura verso l’apprendimento, la riflessività, la didattica, la partecipazione e soprattutto l’analisi delle diversità. Possiamo prendere spunto dalle sue parole per focalizzare l’attenzione sull’importanza della diversità tra uomo e donna, dettata solo marginalmente dalle divisioni. Il concetto di divisione implica una separazione, mentre la parola diversità include la distinzione tra soggetti con caratteri tra loro differenziati come non solo la mascolinità e la femminilità, ma anche la sovrapposizione o mescolanza di questi due elementi. Accettiamo quindi il “disordine di genere” come espressione di attrazione per le diversità. E allora gli esseri umani sono così diversi tra loro?

In effetti possiamo essere certi che esistono uomini con caratteri totalmente maschili, o donne che hanno caratteri totalmente femminili? Si tratta di un farraginoso variegato intreccio di caratteri che prevalgono in modo più o meno visibile nell’uomo o nell’altro uomo, quindi nella donna o nell’altra donna. Esiste sempre l’immagine di un altro migliore di noi stessi e questo apre il discorso su diversità e soggettività. Non a caso la Padoan affronta il tema della reciprocità facendo riferimento alla soggettività umana, quindi all’esperienza capace di costruire e “modellare” gli schemi mentali dell’uomo e della donna a seconda del loro specifico vissuto: famiglia di provenienza, amicizie, tendenze culturali, stili di vita; tutto ciò che partecipa alla costruzione di un frame intellettivo del nostro agire. Il dualismo che si genera tra le differenze in una relazione di complementarietà si può estendere anche in altri ambiti? Gli studi e le ricerche di Katrina Powell e Pamela Takayoshi dimostrano quanto la conoscenza scientifica sia il frutto di relazioni tra diversi approcci, ma soprattutto di scambi tra soggetti appartenenti a gruppi tra loro differenziati. In tal senso la suddivisione di genere in un dialogo sulla reciprocità pone l’attenzione sull’importanza dell’interazione tra individui il più possibile diversi per esperienze, appartenenze culturali e modi di essere. Per questo l’istanza di apertura del caffè verso una “finestra di conoscenza polifunzionale” in grado cioè di accogliere, ricevere e promulgare idee può diventare il mezzo attraverso il quale s’incontrano le differenze, in termini di attività, abitudini e saperi. È un luogo di conoscenza tra cultura e arte, signori del passato e habitués del mondo letterale, moderno e postmoderno, dove l’appartenenza al gruppo può stabilire l’intesa, fatta di sguardi, sensazioni e contatti tra persone che stabiliscono un incontro. Il caffè non è un’enciclopedia, non è un libro, non è una tavola pitagorica e non è l’ANOVA, non è un diagramma di flusso, nemmeno un piano fattoriale o una tavola di contingenza, ma grazie all’osservazione delle sue manifestazioni come la complessità del contatto sociale diventa la determinazione di un fenomeno collettivo come l’interazione tra gruppi, categorie e ceti. È un luogo che necessita di una precisa connotazione empirica, il piano fisico della materia. Non ha senso un caffé per statistici e uno per sociologi, uno solo per letterati e uno ancora diverso per antropologi o etnografi. Quanti diversi caffè dovrebbero esistere? Il processo di accostamento umano tra diverse realtà pone sul piano della discussione una condizione o connotazione imprescindibile dall’approccio interdisciplinare, eclettico e versatile come forma di adattamento dell’individuo all’esistenza nel suo mondo sensibile. La dialettica a tal proposito non è ghettizzabile. Sul piano dell’osservazione non è dunque necessario tenere questi caffé separati. In tal senso questi diversi livelli interpretativi, come la distinzione tra la dimensione scientifica, razionale, filosofica e contemplativa dovrebbero interagire continuamente. Il caffè può diventare dunque un mezzo attraverso il quale si stabilisce una sorta di reciproca interazione tra individui che accettano il dialogo. Dimentichiamo quindi il caffé preso di fretta nella spasmodica società dei consumi e concentriamo l’attenzione sulla lentezza del caffè, quella calma che permette di stabilire diverse implicazioni del termine reciprocità, classificandone le interazioni, come afferma il prof. Paolo Impara.

Dal punto di vista dell’interazione il processo attraverso il quale l’ego e il tu entrano in contatto presuppone un rapporto di reciproco scambio. È pur vero che il contatto tra le persone non è tuttavia un processo del tutto indolore; non è di fatto così scontato, e non è nemmeno certo che tale processo dia vita ad una relazione stabile o duratura nel tempo. Togliamo quindi la frenesia dell’immediatezza. Quando prendiamo un caffé con calma, possiamo guardare l’altro negli occhi e ricercare le nostre più singolari somiglianze. Possiamo osservare le sue mani, mentre sfiora la tazzina e gioca con le parole che si annidano alla ricerca della complicità. Tutto ciò avviene sempre e comunque? L’osservazione attenta del sé o del sé che si riflette nell’altro non si concentra in un’analisi interiore quando le cose vanno bene, ma quando si generano le asperità, le discussioni e le polemiche tra individui che avvertono l’assenza di reciprocità: questa è la principale difficoltà. Accettare questa assenza significa colmare il vuoto che potrebbe crearsi ghettizzando il dialogo. Che vuol dire? Un matematico e un sociologo, un architetto, un assistente sociale, un attore, un prete, un politico, un carcerato e un medico che si trovano a prendere un caffè non potranno mai trovarsi d’accordo se non accettano l’idea di cambiarsi di posto: tentare di prendere la maschera sociale dell’altro. Takie Sugiyama Lebra identifica la reciprocità come un processo che ammette il cambiamento di ruoli tra soggetti che tentano di penetrare la personalità dell’altro. Nella realtà le persone non s’incontrano in base solo alle discipline, o solo in funzione delle loro competenze e neanche solo in base ai loro mestieri, ma si riconoscono grazie alla simpatia, alla semplicità del loro linguaggio, all’armonia che può sensibilmente far incontrare i loro diversi stati d’animo. Per far questo dovremmo ricordarci che non si comunica solo con le parole ma anche con il saper essere: trasferimento dell’ego attraverso l’alter ego, grazie alla capacità di immedesimarsi nell’altro. Tutto ciò significa ricercare quelle ambiguità comunicative necessarie a saper incontrare l’altro, strutturando il dialogo, rispettoso delle diversità disciplinari, ma capace di stabilire delle forme di gioco, per esempio simulando di essere qualcun altro. La videoconferenza ci aiuta in tal senso, in quanto offre non solo lo strumento, attraverso il quale riusciamo ad ampliare gli spazi di relazione tra soggetti fisicamente distanti, ma amplifica gli spazi di simulazione. Chi ci dice chi è dall’altra parte? Nello spazio remoto, in video potremmo assumere le vesti di qualsiasi altra persona! Ma il bluff si scopre quando apriamo bocca e diamo spazio al linguaggio. È solo attraverso il linguaggio, filosofico, intellettuale, rozzo, brutale, accademico, cronista, poetico, tecnico o scientifico, che possiamo distinguere le differenze in una molteplicità di segni linguistici. Pensiamo alla prosa didascalica, all’oratoria, a quella epistolare e alla tragedia, ai puristi e a come vengono scritti i rapporti scientifici, ai neologismi, ai gerghi e ai forestierismi, ai francesismi, alle parole cristiano–latineggianti; tutte queste forme di espressione ci permettono di capire la provenienza dell’altro. Attraverso i linguaggi le persone si riconoscono in funzione dei libri che hanno letto, degli studi che hanno fatto collettivamente o singolarmente; possiamo capire così le diverse “radici etimologiche disciplinari”. È proprio attraverso il linguaggio che le persone riescono a stabilire diverse forme di reciprocità, perché con le parole si rendono partecipi gli altri delle nostre idee. L’intervento del prof. Impara ci aiuta dunque a pensare al modo attraverso il quale riusciamo a sistematizzare, sul piano analitico e di speculazione intellettuale, le diverse forma di reciprocità: socio-comunicative, psico-sociali, filosofico–scientifiche. Sul primo di questi tre aspetti entra in gioco la tecno-comunicazione, come anticipa il prof. Roberto Cipriani, rivisitando criticamente anche le altre forme di reciprocità, Vb.

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