Generale

Margherita Zei – “A little more than kin, and less than kind” (Un po’ più che parente, e men che padre affettuoso.)

di Margherita Zei

In casa mia vige una totale anarchia lessicale. Abito da sola… Beh, su questo assunto ci sarebbe da dire, nel senso che la mia casa è popolata da un umano, due gatti e due pesci rossi.

Ognuno di noi usa il suo linguaggio e molte volte mi pare evidente che sia proprio la parte umana della casa a non essere in grado di usare a dovere la facoltà del farsi capire. I miei “gattacci” parlano tra loro in modo evidente e solo chi non ha avuto la fortuna, o la ventura, di possederne non può capire quanto affermo. Ecco, ciò fa saltare subito all’occhio il fatto che a volte le parole contribuiscono più alla incomprensione che ad una effettiva comunanza di intenti, di come esse siano ben lungi dal realizzare la sospirata reciprocità! Vallo a dire a Nerone, il gattone nero di dieci anni, che è in mio “possesso”! Lui è profondamente convinto del contrario…

Quando Dio ha punito le creature con i fatti di Babele, condannando i suoi figli a non essere più in grado di usare il dono della reciprocità e quindi della comprensione, ha esteso la punizione anche agli animali, che parlano tra di loro, ma non sono più in grado di farlo con gli umani. A dire il vero la cosa è un po’ differente: siamo noi umani che, con la pretesa di considerare la Natura al nostro servizio, avviciniamo il mondo animale con il solo scopo di “nocumento”. Verrebbe da chiedersi se noi saremmo disposti ad interagire con chi manifestasse nei nostri confronti palesi intenzioni assassine! Ma basta avere la voglia, e in alcuni casi il coraggio, di interagire con loro per scoprire un mondo variegato e fantastico dal quale siamo esclusi per superficialità e presunzione, noi, e per paura, loro. Certo non è molto consigliabile andare in una gabbia di leoni per spiegare loro di quanto sia piacevole e interessante interagire a livello dialettico, disquisendo, che so, sui Massimi Sistemi. Ho la sensazione che i Massimi Sistemi felini abbiano un significato vagamente differente dal nostro. Diverso è cercare di interagire con i miei gattoni: loro sanno quel che mi dicono e io cerco disperatamente di capire e farmi capire.

Mi torna in mente quella storia, sentita chissà quando e chissà dove, che racconta di come alcuni ricercatori avessero registrato le voci di un branco di delfini, notoriamente molto intelligenti (i delfini, non i ricercatori!). In un secondo momento gli stessi studiosi avevano propagato negli abissi quei suoni con un registratore a prova di acqua. Con grande stupore videro avvicinarsi alla barca un branco di delfini che palesemente rispose a quel richiamo, restando in attesa della ulteriore risposta degli umani, che nella loro grande saggezza rimasero in silenzio, incapaci di rispondere a loro volta. Non oso pensare a ciò che sarà passato nella mente di quelle intelligentissime creature. Di certo il genere umano non ci fa una bella figura. Magari avranno disturbato qualche vecchio signor delfino intento ad ascoltare le ultime ultrasuono-notizie dell’abisso, o magari una scolaresca spensierata sarà sfuggita alla sorveglianza della delfino-maestra, che l’avrà rincorsa fino alla barca di quegli inopportuni e sciocchi umani!

E che dire della mia conoscente che, in preda ad un attacco di amore per il regno animale, decise di prendersi un cane? Per fortuna ebbe il buon senso di andare in un canile, dove dentro le solite anguste e luride gabbie torme di cani abbaiavano le loro proteste e le loro richieste. In un angolo di una di queste c’era un cagnetto spelacchiato e dagli occhi tristi; lentamente e ciondolando sulle zampette storpie si avvicinò alla porta e si mise a guaire miseramente. La mia amica, sempre più presa dal raptus di bontà, decise di fare, già che c’era, una vera opera di bene e rendere felici gli ultimi istanti della vita dello sfortunato esserino. Così lo prese in braccio e si recò dal veterinario del canile, che diede il nulla osta per l’uscita della bestiola, la quale, appena varcato il portone del canile, letteralmente saltò dalle mani della sua salvatrice, zampettandole intorno allegramente e abbaiando di felicità per la ritrovata libertà. Tutto era miracolosamente passato e la mia amica ancora si chiede cosa abbia sbagliato nel suo essere convinta di “capire”, mentre accarezza quella grande lenza del suo furbissimo cane da premio Oscar!

Quanto a me, ormai da tempo la mia gatta Polì2, che ha otto anni, sta cercando di insegnarmi a “parlare”, ma purtroppo ha un’allieva molto dura di comprendonio, così si vede costretta a strane posizioni e giravolte per farsi capire. Ma ormai qualcosa l’ho imparata anche io, presuntuosa umana: il linguaggio del corpo, che noi abbiamo accantonato e in molti casi dimenticato, rimane ancora il modo migliore di farsi comprendere per gli animali che, reduci anche loro da Babele, si vedono costretti ad usare linguaggi diversi non solo da razza a razza, ma anche tra luogo e luogo. Proprio come noi, che non capiamo non solo la lingua di uno stato confinante, ma anche la favella di chi sta nella regione, o addirittura nella provincia accanto alla nostra.

Nell’arco della storia dell’umanità sono stati molti gli spiriti eletti che hanno tentato di “capire”, a dire il vero sempre con risultati abbastanza discordanti. Nell’antichità l’interazione uomo-animale era vissuta con un certo senso di sudditanza da parte del regno animale, come già si riscontra nella Bibbia:

“E Dio disse: «Facciamo l’uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza, e domini sui pesci del  mare e sugli uccelli del cielo,  sul bestiame, su tutte le  bestie selvatiche e  su tutti i rettili che strisciano sulla terra».”  Genesi, 1/26

“Dio  li benedisse  e disse loro:  «Siate fecondi  e moltiplicatevi,  riempite la  terra; soggiogatela e dominate sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo e su ogni essere vivente, che striscia sulla terra».” Genesi, 1/28

Ma allora animali e uomini interagivano ancora, si comprendevano. Questo però cozzava con l’assunto per il quale le bestie erano soggette e inferiori all’uomo, immagine della divinità. Allora la voce degli animali si fa “bestiale”, in senso moderno, e diviene il simbolo della tentazione, del peccato più grave, quello contro Dio, dato che ancora Adamo ed Eva non avevano avuto modo di sperimentare tutte le gioie della trasgressione. Così è la voce del serpente, animale viscido e strisciante, che induce Eva, con una sorta di maschilismo ante litteram, a peccare contro il suo padrone e Signore, coinvolgendo in ciò anche il suo ignaro compagno:

“Il  serpente era  la più  astuta di  tutte le  bestie selvatiche  fatte dal  Signore  Dio. Egli disse alla  donna: «È vero che Dio ha detto: Non dovete mangiare di nessun albero del  giardino?».  Rispose la donna al serpente: «Dei frutti degli alberi del giardino noi possiamo mangiare, ma del  frutto dell’albero  che sta in  mezzo al giardino  Dio ha detto: Non  ne dovete  mangiare e non  lo dovete toccare,  altrimenti morirete». Ma il serpente disse  alla donna: «Non  morirete affatto! Anzi, Dio sa  he quando voi ne mangiaste, si aprirebbero i vostri occhi e diventereste come Dio, conoscendo il bene e il male».”  Genesi, 3/1-5

Dato che era passato troppo poco tempo dalla loro creazione e presumibilmente ancora non si erano avuti frutti del loro amore, cosa di meglio che sfruttare gli animali, o, meglio, quello più vicino al terreno, per far cadere i nostri ingenui antenati in tentazione? E così, prima ancora della nefasta Babele e della sua torre e per la prima volta nella storia dell’umanità – purtroppo non l’ultima – si interrompe un dialogo tra “diversi”, togliendo all’uomo la capacità di interagire con tutto il regno animale, del quale facciamo parte, a scorno di chi vorrebbe sentirsene non parte, ma artefice e padrone.

Anche nell’episodio del diluvio, quando Dio, esasperato dalle nefandezze delle sue creature, vuole punire tutti gli uomini, gli animali hanno una sorta di ruolo comprimario con connotazione di inferiorità. Se gli uomini sono stati cattivi, perché uccidere anche tutti gli animali, salvandone solo una coppia? E chi stabilirà “quale” coppia? Democrazia e uguaglianza non sono valori che valgono per gli animali; a loro viene riservato il solito ruolo di sudditi, e neppure tanto buoni:

“Ma con te io stabilisco la mia alleanza. Entrerai nell’arca tu e con te i tuoi figli, tua moglie e le mogli dei tuoi figli. Di quanto vive, di ogni carne, introdurrai nell’arca due di ogni specie, per  conservarli in vita con te: siano maschio e femmina. Degli uccelli secondo la loro specie, del bestiame secondo la  propria specie e di tutti i rettili della terra secondo la loro specie, due d’ognuna verranno con te, per essere conservati in vita. Quanto a te, prenditi ogni sorta di cibo da  mangiare e raccoglilo  presso di te: sarà  di nutrimento per te e per loro».”  Genesi, 6/18-21

Viene da pensare a quanta sfacciata fortuna abbiano avuto i pesci, probabilmente tutti così buoni tanto da non meritare nessuna punizione. Ma forse per quelle creature degli abissi vale la regola del “se non lo vedi, non esiste”.

E alla fine del diluvio quando le acque, finalmente ritiratesi, offrono a Noé la possibilità di fermarsi, questi non trova di meglio che ammazzare un po’ di animali per ringraziare, e ingraziarsi, Dio:

“Allora Noé edificò  un altare al Signore; prese ogni sorta di animali mondi e di uccelli mondi e offrì olocausti  sull’altare. Il Signore ne odorò la soave fragranza e pensò: «Non maledirò più il suolo a causa dell’uomo, perché l’istinto del cuore umano è incline al male fin dalla adolescenza; né colpirò più ogni essere vivente come ho fatto.” Genesi, 7/20-21

Chissà come si devono essere sentiti onorati quegli animali, che, usciti dall’arca con la speranza di una vita migliore e di umani forse più comprensivi, si sono visti prendere, legare e immolare ad un Dio che chissà se conoscevano. E per farsi una fragrante grigliata mista, forse non c’era bisogno di distruggere tutto l’incolpevole mondo animale e l’umanità, quella sì colpevole!

E ancora una volta, semmai ce ne fosse bisogno, viene ribadito il concetto della paura reciproca, della profonda incomunicabilità tra due mondi tanto lontani e pur tanto simili, aggiungendo l’assunto che l’uomo è padrone di tutto ciò che vive e di questo può usufruire a suo piacimento:

“Il timore e il terrore di voi sia in tutte le bestie selvatiche e in tutto il bestiame e in tutti gli

uccelli del cielo. Quanto striscia sul suolo e tutti i pesci del mare sono messi in vostro potere.

Quanto si muove e ha vita vi servirà di cibo: vi do tutto questo, come già le verdi erbe”.

Genesi, 9/2-3

Riflettendo su queste parti della Bibbia mi viene il sospetto che i miei “gattacci” siano discendenti dei sopravvissuti al Diluvio e che si tramandino dalla notte dei tempi una specie di codice per entrare in sintonia tra loro, mentre, avendo visto quale fu il risultato della gita sull’Arca, almeno per alcune razze, se ne guardano bene dal comunicare con noi umani. Hai visto mai che qualcuno di loro finisca grigliato o allo spiedo durante qualche scampagnata del primo maggio? Noi pensiamo che non ci capiscano, ma chissà quanti hanno visto le immagini della vivisezione o ne hanno avuto notizia da qualche loro parente miracolosamente scampato a quella brutalità tutta umana. Per comunicare, e male, abbiamo bisogno delle tecnologie più spinte, mentre è evidente che ogni animale comunica con gli altri tramite suoni per fortuna, loro, a noi incomprensibili, quando non addirittura inudibili. Chissà quante volte gli uccelli, specie se migratori, hanno portato notizia di ciò che accade al mondo, anticipandoci nella conoscenza. Forse il Buon Dio li ha creati proprio per avvertire gli altri esseri viventi del grande errore commesso nel creare questa razza di gente infida, che non sa più riconoscere la vera essenza della vita stessa, avendo rinunciato a quella grande fortuna che è la capacità di comunicare e, soprattutto, di ascoltare. Forse gli animali non hanno perso quella stupenda capacità di ascoltare prima con il cuore e poi con le orecchie, che noi abbiamo invece dimenticato chissà dove lungo il cammino della nostra presunta, e presuntuosa, cosiddetta “civiltà”.

Note

1 W. Shakespeare, Amleto (traduzione di G. Baldini), BUR Teatro, Milano, 2005, pp. 52-53.

2 Il nome Polì deriva da Polifema, in considerazione del fatto che la gatta ha un occhio solo.

Bibliografia

Shakespeare W., Amleto (traduzione di G. Baldini), BUR Teatro, Milano, 2005Il termine “reciprocità”, le parti che precedono lo dimostrano, può essere declinato come dialogo, relazione, diversità di genere, sessualità, affettività, ecc. Un ulteriore modo che può essere evidenziato è quello della reciprocità connessa con gli aspetti più squisitamente linguistici e la riflessione che si intende qui fare concerne il rapporto che passa tra reciprocità linguistica e Babele.

Abbastanza noto, sicuramente, è il mito di Babele contenuto nel Vecchio Testamento (Libro della Genesi, versi 1-9), che qui sotto viene riportato:

«Ora la  terra aveva una sola  favella, e uno stesso  linguaggio. E partendosi gli uomini dall’oriente, trovarono una  pianura nella terra  di Sennaar,  e ivi abitarono. E  dissero l’uno all’altro: Venite,  facciamo dei mattoni, e cociamoli  col fuoco. E  si valsero di mattoni  in vece di  pietre, e di bitume in  vece di calce: e dissero: Venite, facciamoci  una  città e una torre,  la cui cima  arrivi fino al cielo: e illustriamo il  nostro nome prima  di andar divisi per tutta quanta la terra.

Ma il Signore discese a vedere la città e la  torre, che i figliuoli d’Adamo fabbricavano, e disse: Ecco che sono un sol  popolo, ed  hanno tutti  la stessa lingua: e hanno cominciato a fare questa opera, e non desisteranno da’ lor disegni, finchè li abbiano condotti a termine. Venite adunque, scendiamo, e confondiamo il loro linguaggio, sicchè l’uno non capisca  più il parlare dell’altro. E così  il Signore  li disperse da quel luogo per tutti i paesi, e cessarono di fabbricare la città. E per ciò essa fu chiamata Babel, perché ivi fu confuso il linguaggio di tutta la terra, e di là il Signore li disperse per tutte quante le regioni».La storia di Babele ha più di un significato (peccato di presunzione da parte degli uomini, paradigma della vanità umana, punizione divina, ecc.), ma qui interessa mettere in luce quello linguistico. Sotto tale profilo Babele rappresenta uno spartiacque tra un “prima” e un “dopo”. Precedentemente la Bibbia o, meglio ancora, i rotoli biblici lo dicono chiaramente, si parlava una sola lingua, quella delle origini, la quale sembra costituire un “fondo comune” a tutti gli idiomi che successivamente si sono parlati: esso sarebbe quel che è stato chiamato Ursprache e metaforicamente indica la “volgata dell’Eden”, come afferma George Steiner in Dopo Babele.

Successivamente ai “fatti di Babele” la Ursprache si sarebbe frantumata negli innumerevoli idiomi parlati nel mondo. L’origine delle lingue è perciò la conseguenza della punizione inflitta da Dio agli uomini per la sfida da essi compiuta nei Suoi confronti (l’hybris: l’uomo, superbo, non esita a porsi contro Dio per affermare se stesso): ad ogni popolo viene assegnata una lingua particolare e mentre prima tutta la terra aveva un unico modo di esprimersi, ora gli uomini parlano lingue diverse e, inoltre, vengono dispersi e finiscono con l’occupare l’intera geografia del pianeta. Dunque è da questo atto divino che prende avvio il gran numero di idiomi esistenti e la necessità di farsi capire tra chi parla in modo diverso. La diversità linguistica – Babele – non favorisce quindi la reciprocità, a seguito della sovrapposizione di suoni (ma non solo) che comunicano pochissimo fra loro. Ne deriverebbe una coppia (“Babele/reciprocità”) che rappresenta una delle relazioni dialettiche (culturali) del XXI secolo e non solo. Tale status quo ha reso necessaria la traduzione interlinguistica affinché chi parla lingue diverse possa capirsi: se si vuole commerciare, viaggiare, negoziare, leggere, ecc., bisogna disporre di “ambasciatori” che siano in grado di comprendere l’idioma degli altri. E in tale necessità risulta evidentemente implicita l’utilità della traduzione. Ma accanto alla necessità di tradurre non si può trascurare quello che Antoine Berman chiama, in L’Épreuve de l’etranger, il “desiderio di tradurre”, che va ben al di là della necessità e dell’utilità insite nella traduzione: è qualcosa di profondo, di nascosto e conduce alla conoscenza, all’incremento del sapere inteso come insieme di cultura, di prospettive e di configurazioni diverse, oltre – si potrebbe aggiungere – alla scoperta della propria lingua e di certe sue risorse lasciate magari incolte. Come afferma Friedrich Hölderlin: «Quanto è proprio deve essere appreso bene tanto quanto ciò che è estraneo»

La traduzione tuttavia presenta classicamente un grosso problema: l’incapacità di equivalenza, considerato che qualsiasi trasposizione da un idioma all’altro pone, spesso, insolubili problemi: pertanto la traduzione perfetta è solo una vagheggiata speranza e quello di una lingua unica è un sogno. Ma ciò non può diventare un alibi e la traduzione resta una pratica rischiosa da effettuarsi comunque; l’alternativa, altrimenti paralizzante, sarebbe la seguente: la diversità delle lingue esprime una radicale eterogeneità e la traduzione, almeno in linea teorica, è impossibile oppure la traduzione – considerata come dato di fatto – si spiega con quel “fondo comune” che rende in qualche modo possibile la trasposizione linguistica. Tale fondo comune sarebbe proprio la Ursprache, un argomento che ha suscitato grande interesse anche da parte, per esempio, di filosofi (Jacques Derrida e il «reame insieme “promesso e proibito in cui le lingue si riconcilieranno e si compiranno”»; Walter Benjamin e “l’affinità originaria”).

Quella del “fondo comune” è chiaramente una teoria “possibilista”, grazie alla quale tradurre è come scendere al di sotto delle differenze esogene ed endogene fra due lingue per andare a ricercare quegli elementi analoghi e, alla radice, comuni. Tuttavia c’è chi si spinge a negare tale possibilità: la tesi della intraducibilità è la conclusione cui sono pervenuti ad es. alcuni etnolinguisti (Benjamin Lee Whorf, Edward Sapir). Opposizioni concettuali a parte, è innegabile che la traduzione si imponga e che avvicini lingue (e culture) diverse, spesso molto distanti (in tutti i sensi) tra loro, garantendo la reciprocità comunicativa. Una osservazione attenta non mancherà, inoltre, di far rilevare come si stia da tempo verificando un fenomeno di “contaminazione” linguistica: è una delle conseguenze della globalizzazione culturale e della uniformità dei comportamenti e dei modelli che si porta dietro, cioè quella perdita della diversità tra culture – un principio così fortemente sentito in ambito comunitario europeo – che sta cambiando le “regole del gioco”. Infatti un mondo come quello attuale, nel quale non esistono pressoché più frontiere, in cui le distanze si sono ridotte notevolmente e tutti siamo a contatto con individui molto diversi, ciascuno con tratti somatici e lingue diversi – “il mondo in casa”, si può benissimo affermare –; un globo nel quale, da un lato, lo sviluppo delle nuove e rapide tecnologie della comunicazione e dell’informazione ci consente di essere informati sulle più lontane parti del pianeta e in cui, dall’altro, i mass media ci propongono produzioni e modelli multietnici e interculturali – non solo statunitensi –, un mondo dalle siffatte caratteristiche ha creato le condizioni per l’avvicinamento e il dialogo fra le varie civiltà, culture e lingue. In particolare per quel che riguarda gli aspetti linguistici, da tempo si assiste a quella “contaminazione” linguistica prima accennata: sempre più frequentemente le lingue si incontrano e si “intersecano” cedendosi a vicenda termini e locuzioni (in termini tecnici si parla di “prestiti”), arricchendosi di nuovi elementi lessicali. Il moto linguistico in questione ricorre per tutte le lingue e nessuna può dirsene del tutto esente; ciò che può variare è semmai l’intensità, cioè la maggiore o minore propensione a far propri elementi linguistici di origine straniera: a fronte di Paesi che tengono alla propria purezza linguistica (ad es. la Francia e la Spagna) ce ne sono altri (ad es. l’Italia) molto ben disposti ad accogliere termini stranieri e ad usarli, mettendo spesso completamente da parte i propri vocaboli che pur non mancano. Una rapida verifica consente di affermare come ad es. in italiano ci sia una eccessiva presenza di anglicismi: l’inglese ha messo in atto una vera e propria colonizzazione linguistico-culturale, di provenienza essenzialmente statunitense, che non riguarda però solo l’italiano, il che sta portando a un monolinguismo anglofono nella comunicazione a livello mondiale con conseguenti rischi di emarginazione delle altre grandi lingue e di estinzione di quelle minori. Oltre agli innumerevoli anglicismi l’italiano presenta anche francesismi, germanismi, ispanismi, “portoghesismi brasiliani”, degli esotismi (ad es. pochi “giapponesismi” e qualche vocabolo polinesiano), alcuni slavismi e arabismi, qualche ebraismo e altro ancora. Ma anche la nostra lingua, a  sua volta, cede alcuni termini, sebbene il rapporto sia impari, ricevendo essa molto più di quel che dà, ma al di là del “chi cede a chi (e cosa)” il fenomeno in questione rappresenta una evoluzione linguistica (Ferdinand de Saussure parlava di parole che fa evolvere la langue). Da questo punto di vista Babele diviene allora un dono: la dispersione linguistica non dev’essere vista perciò solamente come una punizione divina, considerato che presenta aspetti positivi. Così la pensa Steiner, che afferma: «Babele non è stato un disastro ma è stata una straordinaria risorsa per gli uomini. La differenza di lingue è un invito alla comunicazione»

Difatti si è trattato di un dono avendo concesso un segno di libertà: quella del linguaggio, perciò la sorpresa e lo sconcerto che il mito comporta scompaiono quando si pensa alla grande vastità di espressione, di conoscenza, e alla serie di mondi possibili e di geografie (anche della memoria) che i tanti diversi idiomi consentono. Se il linguaggio è il medium con cui si manifesta il sapere e l’esistere – «ogni lingua umana traccia una planimetria diversa del mondo», afferma ancora il citato autore – pertanto la molteplicità dei linguaggi è la libertà dell’essere/esserci. Ciò si dimostra anche nella traduzione, a ben vedere: ragionare sui costrutti, esprimere in un altro idioma un determinato concetto indica come le culture espresse nelle lingue implichino una vastità/diversità di conoscenza e, al contempo, consentano una grande libertà di movimento del pensiero sicuramente molto più dinamico rispetto al passato.

Evoluzione, si diceva poc’anzi, ma verso cosa? Verso un ricompattamento linguistico; è come se dalla frammentazione si stesse procedendo in direzione di una riunificazione, di una nuova Ursprache o, se si vuole, di un nuovo esperanto. Sembrerebbe quindi si possa affermare che si sta realizzando un lento ed inesorabile processo linguistico di senso opposto, quindi suscettibile di ritorno dal passatola presente; una sorta di Babele all’incontrario e la conseguenza di tutto ciò sarebbe che la coppia oppositiva “Babele/reciprocità” di cui prima sta venendo, forse, pian piano dissolvendosi. Se così è, ovvero se il cerchio veramente si sta chiudendo, ci vorrà sicuramente del tempo: è un procedere inevitabilmente lento e non è certo detto che ci si arriverà e, soprattutto, non è il tentativo fatto circa trenta anni fa di costruire a tavolino una lingua comune. Le lingue cosiddette “storico-naturali” sono venute determinandosi per moto naturale, involontario e lento, mentre l’esperanto ha dovuto la sua nascita a un atto voluto che non ha però sortito grandi effetti: infatti l’uso di questa specie di lingua franca ha attecchito limitatamente e riguarda un non grande numero di iniziati. Stavolta, forse, la cosa è destinata al successo e avremo una nuova lingua unica, forse la sola via per sperare in una possibile integrazione linguistica. Ciò lo si potrà dire solo fra moltissimo tempo, ma noi non saremo più qui a verificarlo.

BIBLIOGRAFIADerrida J., Des tours de Babel, in Teorie contemporanee della traduzione, S. Nergaard (a cura di), Bompiani, Milano, 1995 De Saussure F., Corso di linguistica generale, Editori Laterza, Bari, 1967 Ricoeur P., Le paradigme de la traduction, in “Esprit”, 253, 1999 Steiner G., Dopo Babele, Garzanti, Milano, 2004

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