Pensare è difficile per questo
la maggior parte
delle persone giudica
Carl Gustav Jung
Uno dei presupposti su cui si costruisce lo studio di Durkheim riguarda gli aspetti metodologici e non a caso prima di pubblicare il testo più famoso “Il Suicidio” l’autore pubblicherà: Le regole del metodo sociologico dove possiamo trovare la definizione di fatto sociale:
«È un fatto sociale qualsiasi maniera di fare fissata o meno, suscettibile di esercitare sull’individuo una costrizione esteriore; o anche che è generale nell’estensione di una data società pur possedendo una esistenza propria, indipendente dalle sue manifestazioni individuali[1]»
Partiamo dunque con l’affermare che Èmile Durkheim (1858-1917) prima di analizzare le diverse problematiche relative al suicidio cercherà di focalizzare l’attenzione su che sia un fatto sociale anche dal punto di vista metodologico per capire se il suicidio poteva dunque essere considerato anch’esso un fatto sociale. È questo dunque il punto su cui possiamo porre attenzione non solo per il valore dei contenuti delle sue ricerche ma per l’importanza che possiamo attribuirgli dal punto di vista metodologico. Egli sosteneva il concetto secondo il quale la società trascende l’individuo e gli sopravvive operando su quest’ultimo delle tendenze collettive che guidano le sue azioni e i suoi pensieri. Da questa idea deriva il testi Il suicidio, cercando di porre l’attenzione a questo studio come studio di sociologia pubblicato nel 1897 e dove il sociologo legge il fenomeno delle morti volontarie come un fatto eminentemente sociale.
Dopo questa premessa, nella classificazione durkheimiana dei suicidi viene assegnato uno spazio specifico al cosiddetto suicidio anomico. L’anomia è innanzitutto l’assenza della legge, della regola e dell’ordine. Lo studioso classifica quindi il suicidio anomico come la conseguenza della mancanza del potere disciplinante che la società esercita sull’individuo e sui suoi desideri, in quanto ciò comporta un disorientamento dell’individuo dovuto alla non consapevolezza del limite oltre il quale esso non può spingere le proprie aspirazioni. Ciò renderà l’individuo continuamente frustrato, sofferente e morboso perché voglioso di desideri illimitati e insaziabili. Ciò accade, secondo Durkheim, esclusivamente nell’uomo in quanto la maggior parte dei suoi bisogni non dipendono dal corpo ma dalla necessità involontaria e inconscia di aumentare il proprio benessere, la propria comodità e il proprio lusso migliorando dunque la propria esistenza con fattori esterni alla propria mente e al proprio essere. Al contrario, ad esempio, degli animali che raggiungono invece il proprio equilibrio (tra bisogni e mezzi) con una spontaneità automatica dipendente dal loro organismo essendo i bisogni di un animale puramente materiali come energia e sostanza (cibo e acqua). Dunque se nell’uomo non vengono limitati i desideri e le aspirazioni, esso tenderà a superare i mezzi di cui dispone ad ogni costo e senza rendersene conto e ciò comporterà una sensibilità senza fondo che nulla può colmare arrivando addirittura in certi casi alla morte volontaria. In questo fenomeno il compito della società è quindi quello di essere una potenza morale, una forza intrinseca e regolatrice che limiti le passioni dell’uomo in modo tale da poter essere soddisfatte entro le proprie possibilità e non sforando i propri limiti. A questo punto verrebbe da chiedersi se solamente la società ha l’autorità necessaria per farsi dare il consenso da parte degli uomini di limitare i propri desideri, che mai limiterebbero spontaneamente se si credessero autorizzati e nelle possibilità di poter sovrastare il limite assegnatogli a seconda del posto gerarchicamente occupato. Se tutto questo processo non funziona, ad esempio in momenti di crescita o abbassamento del reddito collettivo quando la società è dunque scossa, ogni individuo tende a essere cosciente del proprio limite e da qui provengono poi le sofferenze che li distaccano dalla vita prima ancora che ne abbiano intrapreso l’esperienza. I frutti di questa azione sociale vanno inoltre perduti e la loro educazione morale è nuovamente da intraprendere in quanto la società scossa è ormai incapace di esercitare l’azione regolatrice che Durkheim analizza in precedenza. Ci si ritrova in un loop in cui non si sa più ciò che è possibile e ciò che non lo è, quali sono le rivendicazioni e le speranze legittime. No c’è più nulla che non si pretende e accresce l’erotismo, ossia l’esaltazione dei desideri. Questo stato di non regolamento si rafforza dunque quando le passioni sono meno disciplinate e più bisognose di esserlo. In tal senso parliamo di norme sociali che nascono come semplici convenzioni a cui non si pone una giustificazione per la loro esistenza. Le norme che al contrario richiedono di essere legittimate sono ad esempio quelle per la legittimazione etica, ove è sentito il bisogno di motivare il fatto che quest’ultime esistano imboccando svariate strade, e quelle per la legittimazione funzionale, che cercano di dimostrare che una norma è giusta in quanto utile e a vantaggio per l’individuo. Nella vita pratica esse si mescolano con lo scopo di giustificare la validità di una norma o di un comportamento, addirittura di un pensiero semplicemente perché divergente rispetto alla norma stessa. Ed è quindi anche e soprattutto tramite l’assenza di queste legittimazioni che si rischia realmente di giungere all’anomia sociale: anche la norma rischia di perdere il suo senso più proprio.
[1] Durkheim E., Les règles de la mètohde sociologique (1895) trad. it di Michele Prospero, Le regole del metodo sociologico, editori Riuniti, Roma 1996., pag. 32.